Sono un
lettore diligente, ultimamente anche parecchio affamato, ma non ho mai avuto
pretese di scrivere recensioni. Se però si tratta di parlare di un libro che ti
ruba la vita sociale, prende casa nel tuo salotto e ti svuota il frigo, reclamando
le tue attenzioni come un cugino particolarmente affettuoso arrivato da
oltreoceano e di cui ignoravi perfino l’esistenza, se, dicevo, si tratta di
tutto questo, condividere quello che ti ha lasciato dentro diventa una missione.
Così si finisce per l’essere di parte, il che annulla la nostra capacità di giudizio,
ma, appunto, in fondo chi se ne importa. Pensate a quando siete ospiti a un
pranzo o a una cena a casa di qualcuno: se qualcosa non vi piace piuttosto
tacete e vi concentrate sullo svuotare il piatto il prima possibile.
Ma se vi
piace… lo fate capire eccome, no?
American Gods di Neil Gaiman è un piatto prelibato come non ne assaggiavo
da tempo, anche se è più facile pensare a una droga, per l’assuefazione che mi
ha creato. Alla base della storia, meravigliosamente narrata, c’è un interrogativo
che trovo personalmente fulminante – e a ben guardare, di una certa attualità:
quando un popolo migra verso un altrove,
che ne è degli dèi della sua terra d’origine? E se questi dèi lo seguono,
finiscono poi per essere dimenticati, fagocitati dalla globalizzazione,
sostituiti dai moderni dèi del finto benessere, della tecnologia, delle
macchine, del vincere facile, della televisione, di internet e dei blog come
questo? American Gods è lo scontro
tra questi nuovi dèi, che girano in limousine e ci parlano dalla tv, e gli dèi del Pantheon classico
dimenticati da tutti, che si nascondono tra i sobborghi delle città, hanno la
barba lunga e vestono impermeabili lisi e fuori moda, vanno a donne e bevono
per dimenticare a loro volta… E il bello è che questi dèi provengono da svariate mitologie, a testimonianza dell’immane e - comunque lo si guardi - affascinante melting pot che è la società americana. Ne è uscita da un paio d’anni una serie tv, per
chi fosse interessato, tutto sommato ben fatta, ma decisamente non all’altezza.
Vi lascio
con la copertina del romanzo, in fondo a questo post. Occhio, perché, pur essendo narrativa di genere – sembra che
questo rappresenti per molti un punto a sfavore, vai a capire perché – è un
libro tutt’altro che facile, in alcuni passaggi esageratamente e spietatamente crudo. Come lo stesso Gaiman
dice nei ringraziamenti finali, c’è l’età
per cui un libro ti cambia la vita, e poi, aggiungo io, c’è tutto il resto.
E in testa
a tutto il resto, anche a quarant’anni, si può trovare ancora qualcosa di
fantastico.
Copertina dell’edizione
Oscar Mondadori, 2016 – Tutti i diritti riservati
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