Su di me

La mia foto
Montemarciano, Ancona, Italy
Un umile inchino, un colpetto di tosse per schiarirmi la voce e via, cominciamo. Ecco quello che ho da dirvi.

domenica 16 giugno 2019

La panchina dei ricordi

Le persone con cui ho deciso di condividere La panchina dei ricordi si contano, come si dice, sulle dita di una mano. È più personale, capite, di ogni altra storia condivisa con voi finora; un racconto che a volte ho quasi paura a rileggere, come quando si tiene una fotografia particolarmente preziosa con la punta delle dita, per paura di sgualcirla o lasciarci sopra una macchia di unto. Poi però ho provato a immaginare la storia raccontata in un contesto che il più fedele e assiduo lettore di questo blog troverà familiare... ma non dico altro, per non rovinare il piacere (spero!) della lettura al restante novanta percento dei frequentatori del mio personalissimo e delirante spazio.

Sappiate, però, che il "racconto nel racconto" che troverete tra queste pagine è vero, mi è stato raccontato da uno dei protagonisti e ne ho tenuto in mano le prove. Leggendo, capirete di che si tratta. 

Con questo post si conclude, almeno per qualche tempo, la pubblicazione di racconti nel blog.
Sto lavorando a qualcosa di più grande, come accennavo qualche post fa, e non ho tempo da dedicare ad altre creature su carta perché già è complicato riuscire a trovarne per portare avanti la mia passione. Darei un braccio per poterne vivere al cento per cento, ma per ora rimane la passione con la P maiuscola da portare avanti ad ogni costo, e nient'altro. Magari la storia che sto scrivendo, e che conto di ultimare per l'estate, mi aiuterà a farmi conoscere e a rinsaldare ancor di più le basi del mio sogno di scrivere per vivere, o forse succederà la volta dopo. Chi lo sa. Per adesso vado dritto per la mia strada perché è la sola cosa da fare.

Come sempre vi ringrazio e vi aspetto qui, sulla pagina Facebook del blog o sulla mia personale.

Oppure alla porta di casa, con birra ghiacciata e buoni propositi.

Alla prossima!

lunedì 3 giugno 2019

L'ispirazione, a casa mia (2/2)

Se è vero che molto del fattore "ispirazione" arriva dal contesto in cui uno vive, è altrettanto vero che più si scrive, più si vuole e si riesce a scrivere. L'ispirazione è una sorta di demone buontempone che, per decidere quand'è che vale la pena venirci a trovare, deve prima trovarci al lavoro, intenti a fare ciò per cui ci appelliamo alla sua clemenza. Se non gli diamo da mangiare, ci ignora. Ma se siamo buoni con lui, promette di farci visita anche alla fermata dell'autobus, magari mentre stiamo per salire sull'ultimo mezzo disponibile per tornare a casa dopo una giornata di lavoro (oppure di notte, in sogno, nel modo più poetico che è dato immaginare. Mi è capitato anche questo, per Il Padiglione Numero Diciannove).

Quando ho detto che è possibile "forzare" l'ispirazione, intendevo proprio questo. Io, ad esempio, ci riesco in un modo tutto mio. Tengo un piccolo diario di ogni idea più o meno interessante perché tutto deve pur nascere da un'idea riassunta in non più di una riga di word (o altro editor, per carità; va bene pure l'Ipad). Poi comincio a girarci intorno, a immaginarmi prima di tutto il QUANDO e/o il DOVE - nel caso di Mia principessa o di Jonas, il QUANDO non è rilevante; nel caso de Il Padiglione Numero Diciannove, o de La panchina dei ricordi, che pubblicherò a breve su questo blog, il QUANDO diventa protagonista - ed eccomi a scrivere.

La storia prende forma partendo da un centro i cui contorni si definiscono un po' alla volta. E al primo blocco, rappresentato da un'incoerenza qualunque nella storia, definisco una o più soluzioni; per ciascuna di esse butto lì un'idea delle possibili conseguenze, fino a che non rimane quella che mi soddisfa di più. Il punto debole di un'impostazione così maniacale - me ne sono reso conto spesso - è che passo ore a studiare gli schemi, mettere in campo i migliori giocatori della squadra, ruolo per ruolo, solo che non comincio mai la partita. O la comincio quando ai miei arrivano i primi crampi, a forza di stare fermi, e il risultato mi soddisfa solo a metà. 

La lezione più importante che ho imparato in questi anni è che, a prescindere da tutto, è fondamentale partire da qualcosa di familiare. Qualcosa di proprio, di intimo e profondo. Nell'esempio che ho fatto nella prima parte di questo post, ho pensato a un contesto fantascientifico e ad un dialogo padre-figlia Perché non tra due fratelli? Perché non so niente di cosa voglia dire avere fratelli o sorelle, se non per sentito dire.

In Jonas la forzatura è stata immaginare From Four Till Late di Robert Johnson - da assumere a piccole dosi, o si rischia di impazzire - come la colonna sonora ovattata e lontana di una situazione di violenza improvvisa, come violento è il contrasto con la quiete polverosa delle prime ore del pomeriggio che sembra trasparire dalle note della canzone. Chi conosce la vita del bluesman sa che l'accostamento con un'immagine cruenta non è campato in aria. Questo è stato un po' il motore di Jonas, unito alla sensibilità di genitore di fronte a fatti che questo mondo distorto conosce.

Il Padiglione Numero Diciannove, al contrario, è nato da una convinzione che ho da sempre, che dall'altra parte ci sia qualcosa che non comprende il dolore di una perdita ma vive giorno per giorno nella meraviglia dell'ignoto. Come una rinascita.

C'è poi un ultimo aspetto, il più incredibile, cui ho sempre guardato con diffidenza quando erano autori affermati a parlarne: e cioè assistere al momento in cui la storia prende il via e va per conto suo, come mia figlia di cinque anni e mezzo che sta imparando ad andare in bici senza rotelle.  Succede davvero, fidatevi. Hai la tua creatura davanti, questa manciata di personaggi variegati riuniti tutti nello stesso posto, e mentre ne riporti su carta i discorsi più disparati ti rendi conto di essere come un giornalista di cronaca, che assiste e descrive, senza aggiungere nulla di suo. Se penso a come uscire da certe situazioni, narrativamente parlando, me li ritrovo tutti lì, ciascuno al proprio posto in attesa di un mio comando, come sagome di attori pronti a recitare il ruolo loro assegnato nel momento in cui i fari illumineranno il palcoscenico.

Questa è la magia di scrivere.

Pronti a girare. Azione!

giovedì 30 maggio 2019

L'ispirazione, a casa mia (1/2)

Come nasce l'ispirazione?

Se c'è una domanda che non mi sono mai fatto, è questa.

L'ispirazione non arriva mai dallo stesso posto, tantomeno ha bisogno di una ricerca ostinata. È un insieme di fattori esterni alla scrittura, generalmente, ma può anche essere alimentata in qualche modo. Perfino forzata, volendo.

Non ho l'esperienza per scrivere un trattato sull'argomento, ma ho le idee molto chiare su come ha sempre funzionato nel mio caso. Come ho detto qualche post fa, le persone sono sempre state per me una fonte di ispirazione potentissima, ma pur sempre una delle tante. Ciò che si dice, che si fa, che si nasconde o che si decide di mostrare all'improvviso; tutto ciò, insomma, che ci rimane impresso e ci emozione lo fa per un motivo preciso, e "giocare" su questo motivo serve a capire se ci sono le potenzialità per raccontarlo trasferendo agli altri la stessa emozione.

Non sono mai partito con il dire "oggi voglio scrivere di fantascienza", per poi incaponirmi a trovare una trama originale con personaggi bizzarri e quant'altro. Così non ci riesco. Però, notando qualche sera fa una smorfia familiare sul viso di mia figlia, mentre giocava a fare il robot, mi è venuta in mente una situazione particolare in un futuro di fantasia; un dialogo tra un padre e una figlia in un mondo nel quale gli uomini e le donne che non possono avere figli possono comunque farsi assegnare figli "sintetici" dell'età che si desidera e con sembianze ricreate in laboratorio sulla base del proprio corredo genetico. Nulla di che, ma è partito tutto da un gioco con mia figlia. Da uno spunto banale, nella sua quotidianità, ne è uscito un contesto fantasioso (per la cronaca, nel mio PC tengo sempre aggiornato un documento dove assegno un ordine di priorità ai miei spunti, per non dimenticarmene, ma questo onestamente è in fondo alla lista).

L'anno scorso, osservando mia figlia alla recita di scuola, mi sono chiesto che cosa sarebbe successo se ad un certo punto uno dei bambini, magari proprio lei, avesse cominciato a far roteare in aria i giocattoli con la forza del pensiero, senza esserne realmente consapevole. Da questo spunto, per esempio, è nata l'idea di scrivere Jonas, che parla di un bambino a dir poco particolare in un contesto di "paurosa violenza criminale", per usare le parole della giuria del concorso a cui ho presentato il racconto. E forse Jonas fa parte di un mondo più ampio, forse è destinato a diventare il villain di un gruppo di persone con capacità straordinarie che un tempo erano solo bambini alla recita dell'asilo in un piccolo borgo della provincia marchigiana.

(CONTINUA...)

mercoledì 15 maggio 2019

Mia principessa

Concludo, almeno per quest'anno, la parentesi dedicata al FIPILI Horror Festival (per rinfrescarvi la memoria www.fipilihorrorfestival.it) pubblicando su questo blog il racconto Mia principessa, presentato a concorso per l'edizione 2018 e classificatosi al settimo posto.

Anche questo, come i precedenti, ha una fonte di ispirazione ben precisa: ho idea che l'ambientazione rifletta le atmosfere gotiche in cui ero immerso in quel periodo; stavo leggendo, infatti, quel Frankenstein di Mary Shelley che colpevolmente ho scoperto tardi e a cui ho fatto seguire in rapida successione e con lo stesso senso di colpa Dracula di Bram Stoker e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di R. L. Stevenson, quest'ultimo letto troppo di sfuggita da ragazzo. Ad attendermi sul comodino, com'è normale che sia, ho Edgar Allan Poe e, più in là sullo scaffale, alcuni racconti di H. P. Lovecraft, tanto per rimanere sul filone dei classici del genere, ma ho deciso di prendermi una pausa perché sto ultimando un romanzo breve e il ragazzo va cresciuto come un figlio un po' problematico al quale dedicare le giuste attenzioni, senza condizionamenti esterni.

Scrivere immediatamente dopo una lettura che ci ha molto ispirato, infatti, è un po' come dormire e sognare di combattere al fianco di Frodo Baggins dopo aver trascorso la serata a guardare Il Ritorno del Re. Qualcosa rimane, e per uno scrittore è ingombrante perché quel qualcosa è farina del sacco di altri scrittori. Il rischio di una contaminazione, o peggio ancora, di un furto involontario, anche solo di un pezzo di un'idea, è altissimo. Confido che questo, nel caso di Mia principessa, non sia successo, ma si sa, sfidare la sorte troppo spesso non è mai una buona idea. 

Come sempre, potete accedere all'Archivio Racconti alla destra di questo post e cliccare il link a Mia principessa. Io sono qui che aspetto fiducioso le vostre opinioni, con la pazienza del bigliettaio di un vecchio cinema di città.

Grazie come sempre, a presto e buona lettura!




giovedì 9 maggio 2019

Nuove sensazioni, giovani emozioni

Riscoprire a distanza di anni rapporti di amicizia che si pensava cristallizzati in una dimensione lontanissima è una di quelle esperienze che rendono la vita degna di essere vissuta, sempre. È quello che capita alle persone di questo mondo, con il loro modo di vivere e di relazionarsi, ed è tutto in quell'attimo preciso in cui realizzi e pensi riconoscerei quel sorriso tra mille!...  e come il mondo dalle montagne russe, ti sfreccia davanti il più bel film per ragazzi che tu abbia mai visto, con appena trent'anni di intervallo tra il primo e il secondo tempo. O come le scene extra dopo i titoli di coda.

Ogni risata dei miei vecchi compagni di classe, al pranzo delle Elementari di domenica scorsa 5 maggio 2019, è stata come una sferzata di ricordi, un binge watching vertiginoso di episodi cavati fuori da uno scrigno magico. Ci pensate? La Terra compie tanti di quei giri nella sua centrifuga cosmica che ciascuno di noi finisce, guidato da una comune legge fisica, con l'allontanarsi dal proprio luogo di origine. Finché scopri che in realtà è ancora tutto lì da qualche parte, a portata di mano; per banale che sia, se allunghi il braccio senti ancora il calore sotto la cenere, ed è un calore terapeutico, che ti riconcilia con la vita. Il nostro modo di ridere, con gli occhi, con la bocca, con i suoni che produciamo, è ciò che ci rende eterni.

E la maestra? Naturalmente era lì anche lei, inossidabile, con le stesse fossette sulle guance e la stessa luce buona negli occhi. L'ho abbracciata come si abbraccia una nonnina, Suor Pia, dall'alto verso il basso, e non chiedetemi di descrivere quello che ho provato meglio di come ho fatto finora, perché non ne sarei in grado.

Quello che so è che niente di quella giornata verrà mai dimenticato, mai più. Quindi voglio ringraziare quelli che c'erano, chi da solo, chi con la propria famiglia Claudio, Alessandro, Roberto, Giacomo (soprattutto Giacomo), Dora, Fabrizio, Stefania, Tommaso e l'altro Tommaso e anche quelli che non sono potuti venire ma sono stati nominati, e un posto a tavola, tra le risate, in un modo o nell'altro l'hanno avuto anche loro.

Per me che scrivo, dinamiche come queste, che percorrono le vite delle persone comuni nel loro essere straordinarie, sono la fonte di ispirazione più potente. Rappresentano la via lastricata d'oro per raggiungere l'immedesimazione completa del lettore, che per chi inventa storie è l'apice del piacere. Come dico sempre, la sincerità ci rende veri.

Quindi vale la pena raccontarle, queste storie, ma ancor di più vale la pena viverle. E poi, per quale altro motivo pagheremmo il prezzo del biglietto di questa roboante giostra?

Ditemi la vostra e alla prossima!





sabato 27 aprile 2019

È arrivato... JONAS!

Nei giorni scorsi, come molti di voi avranno notato, sulla pagina Facebook del blog (che trovate qui) ho fatto libera promozione al FIPILI Horror Festival, "festival tematico della Paura e del Fantastico tra cinema e letteratura" (per saperne di più: www.fipilihorrorfestival.it/ e anche www.facebook.com/fipilihorrorfestival/), che ogni anno, a Livorno, affronta il tema della paura "in tutte le sue accezioni e sfumature", e lo fa richiamando l'attenzione degli appassionati con interventi di ospiti illustri, nazionali e internazionali (per citarne solo alcuni: Dario Argento, George A. Romero, Lamberto Bava, Ruggero Deodato, i Manetti Bros) e proiettando film e cortometraggi d'autore nel corso delle varie giornate.

Io ne sono venuto a conoscenza praticamente per caso, l'anno scorso; cercavo su internet dei concorsi letterari a cui presentare i miei racconti, e quando ho trovato quello organizzato nell'ambito del FIPILI, ho pensato a un piccolo segno del destino. Sono cresciuto leggendo i fumetti di Dylan Dog, i romanzi di Stephen King e imparando a memoria la filastrocca di Freddy Krueger, quindi quale occasione migliore per provare a entrarci dentro per davvero. A parte qualche sporadico tentativo all'inizio della mia avventura in questo mondo, non avevo mai scritto né tantomeno completato una storia dell'orrore. Il concorso richiedeva di farlo nei confini esatti e tassativi di novanta righe di testo, da cui il nome del concorso "La paura fa 90 (righe)".

Avevo in testa delle scene, dei singoli momenti, a cui da tempo cercavo di dare una veste elaborata, un respiro più ampio, senza che mi venisse in mente nulla di particolarmente originale. Sapevo però come descrivere queste scene, come provare a renderle spaventose, e lo sapevo perché, nello scrivere certe emozioni, le provavo io stesso. Questo è successo anche con Il padiglione Numero Diciannove, che ho concluso piangendo. E' per questo che mi piace scrivere, è qui che sta la liberazione che provo nel farlo. E se a provare certe sensazioni sono io che le scrivo, capisco di aver raggiunto il mio primo obiettivo, che è quello di essere prima di tutto sincero. Da lì in poi conta anche quanto il lettore ci mette del suo: se entriamo in sintonia, le mie emozioni diventano le sue, e il gioco è fatto. 

Sapete, credo che in questo la nascita di mia figlia sia stata determinante, perché molto di quello che ho scritto dopo l'ho fatto con una sensibilità rinnovata. Non a caso in certe scene compaiono dei bambini, e questi bambini manifestano delle emozioni, e poi succede loro qualcosa. Oppure racconto di amori spezzati da eventi fatali, che però continuano dopo e vanno oltre.

Lo scorso anno ho presentato al FIPILI Horror Festival il racconto Mia principessa, che si è piazzato al settimo posto tra i venti finalisti selezionati. Quest'anno, su quindici finalisti, sono arrivato quarto con il racconto Jonas, che ha ricevuto anche una menzione speciale. Quindi ho deciso di pubblicare sul blog prima quest'ultimo. 

Ora il piccolo e fragile Jonas aspetta i vostri commenti... Non deludetelo, mi raccomando.

Alla prossima!

 






domenica 21 aprile 2019

La prima volta

Il primo racconto che presentai a un concorso letterario fu subito selezionato tra i vincitori e pubblicato, di lì a poco, in un'antologia. Anche mia figlia, quello stesso anno – il 2013, per la cronaca – arrivò dopo il primo tentativo, quindi quell'anno gli dei devono aver avuto una predilezione niente male per il sottoscritto.

Il racconto si intitola Il padiglione Numero Diciannove ed è il primo di una serie che pubblicherò su questo blog, e chissà dove altro avrò fortuna. Non posso dirvi in quale momento lo scrissi, altrimenti il mio datore di lavoro mi licenzierebbe, quindi non ve lo dirò e basta. 

L'antefatto, brevemente: si trattava, in pratica, di presentare un racconto a un concorso a tema libero, che prevedeva una selezione di venticinque racconti, selezionati tra i più meritevoli, che sarebbero stati pubblicati in un'antologia cartacea. Il concorso in questione, organizzato dall'Associazione Culturale LuccAutori, si intitola Racconti nella Rete e continua di anno in anno a proporre i racconti di venticinque finalisti, che purtroppo  regole del gioco, piacciano o meno  non possono prendere parte al concorso per più di una volta. L'edizione di quell'anno fu la numero dodici.

La storia ce l'avevo in testa da un po', ma l'esatto ordine degli eventi narrati mi colpì una notte mentre dormivo. Le idee migliori, per informazione, sono quelle che ti tengono sveglio la notte, ed io ho avuto modo di sperimentarlo in prima persona. Mi svegliai, dicevo, pervaso da un'eccitazione insolita vista l'ora (pensate male quanto volete, ma non stavo facendo sogni particolari) e mi fiondai al piano di sotto; raccolsi carta e penna dal cassetto della scrivania e, saltellando come un idiota nel tentativo di tenermi in testa la frase, come da bambini si cercava di tenere la pipì se il bagno era occupato, riversai tutto su carta più in fretta che potei. Ne vennero fuori delle frasi sconnesse, dei discorsi diretti sconclusionati, ma fu quanto mi bastò per fissare il concetto. Alla fine ne uscì un racconto intimo, poche pagine scritte con un trasporto che si prova in pochi altri momenti, nella vita. Fu un brivido, letteralmente. Mettere su carta la parola "fine" a una storia inventata e condivisa è un piacere che augurerei a chiunque, un'esperienza tanto sottovalutata quanto inaspettatamente vera e fulminante.

Se cliccate sull'ARCHIVIO RACCONTI, alla destra di questo post, troverete il link al racconto. Nei prossimi giorni ne seguiranno altri, e poi chissà. Molto dipenderà anche da voi, da quello che vi piacerà e da quello che avrete voglia di commentare a prescindere. Per i più pigri, ho collegato il link direttamente al titolo, su in alto, ma vi troverete solo il racconto in questione.

Alla fine di questo post, come di tutti gli altri, avete lo spazio per il vostro commento e anche una casellina per un voto estemporaneo che rappresenti la vostra reazione. Siete fondamentali per me quanto scrivere lo è per la mia vita, quindi, se potete dedicarmi qualche minuto, non fatemi mancare i vostri giudizi!

Buona Pasqua a tutti e alla prossima!


La copertina dell'edizione 2013 de Racconti nella Rete, ediz. nottetempo - Tutti i diritti riservati


giovedì 18 aprile 2019

Un posto al sole

Sulla porta della mia vecchia cameretta, a casa dei miei, da più di vent’anni c’è appeso questo foglio:


Non ho mai letto Stephen King in originale, ma mi riesce difficile credere che tre figure intermedie  il suo editor; il traduttore italiano; infine l’editor che interviene sulla traduzione italiana (figura di cui ho scoperto l’esistenza un anno fa, come vi racconterò in uno dei prossimi post) migliorino il lavoro dell'autore al punto da renderlo un pilastro della letteratura americana contemporanea.

Mi chiedo: quello che rimane di questa dichiarazione è solo antipatica falsa modestia? Come quelli che danno gli esami dicendo che non sanno niente e poi prendono trenta e lode?

Per la cronaca: io ci sono cresciuto, con Stephen King. Mi ha influenzato molto nella scrittura in tutti questi anni, per questo ho smesso di leggerlo da un po' di tempo.

A parte l'autore in sé, quando ero ragazzino questa frase mi colpì molto, e cominciai a ragionare sull'idea che scrivere potesse diventare occasione di guadagno. Sarà per questo che non ho mai capito fino in fondo l'affermazione "scrivere per se stessi". Okay, ci sta che scrivere sia un atto profondamente intimo, in una certa misura, e come tale vada compiuto con degna sacralità, rispettando prima di tutto se stessi e prendendosi il tempo necessario a liberare quello che si ha dentro. Ma poi? Quand'è che si va oltre?

Scrivere non è qualcosa che si esaurisce in un comportamento autistico, nel senso letterale di chiusura in se stessi, quindi a un certo punto nell'animo di chi scrive scatta l'idea di condivisione, e per condividere pienamente bisogna anche essere chiari, sinceri. A quel punto o abbiamo un riscontro positivo, o non l'abbiamo. E se non l'abbiamo, difficilmente ci verrà voglia di ripartire dal Via!, piuttosto ci arrenderemo all'evidenza di non essere dei bravi narratori e cercheremo altre valvole di sfogo.

Ma se la condivisione funziona, e il riscontro è okay, non c'è nient'altro da fare che andare avanti. Il desiderio di condividere si allarga a un gruppo più ampio, che parte sempre, è inevitabile, dalla propria famiglia. Come il proverbiale sassolino gettato in uno stagno. Quanto più il sasso è pesante, tanto più alto sarà il numero di onde che vedrete inseguirsi sulla superficie. Mi piace pensare che il peso del sasso sia dato dal coraggio che ci mettiamo, l'impegno nel fare di un germoglio un albero fiorito da giardino, oppure una quercia in mezzo a una foresta.

Poi, man mano che l'orizzonte si allarga, c'è chi trasforma quella condivisione in un commercio, i suoi scritti in prodotti da vendere e collocare sullo scaffale giusto, che si tratti di un centro commerciale o di una boutique d'alta moda.

E se le librerie polverose e affascinanti nei vicoli di città diventano bancarelle del centro commerciale di periferia, in fondo, non è colpa di chi scrive. L'importante è continuare a fare ciò che si ama, che sia leggere, scrivere, o semplicemente comprare libri, rimanendo fedeli a se stessi e accettando, senza patemi, che le mode cambino. 

E voi che cosa ne pensate?
Alla prossima.

venerdì 12 aprile 2019

L'importanza di raccontare

"E quindi?", direte voi. "Di che cosa parla questo blog?"

Di passioni, principalmente. Non per il gelato o il bondage, certo, ma delle passioni che si potevano avere a vent'anni nel Duemila. Ma anche a quindici nel Novantacinque, se è per questo; o, più indietro ancora, a sette nell'Ottantasette, perché no. Raccontarvi di un'età tonda tonda in un anno perfetto a livelli cosmici è un pretesto per farvi leggere quello che scrivo. E se poi non vi piace, si può sempre parlare d'altro.

Il fatto è che mi piace l'idea di spiegare da dove nasce questa passione e che cosa c'è dietro ai racconti che scrivo. Non ne ho scritti molti finora, ma qualcuno qualche piccolo risultato l'ha raggiunto, o lo sta raggiungendo. Quindi concedetemi un po' di sano egocentrismo - siamo pure sempre a casa mia, porca miseria: avrò il diritto di girarmene in mutande da una stanza all'altra, se ne ho voglia!

A sette anni o giù di lì, dicevo, vidi per la prima volta Commando, con Schwarzenegger, dio mio che film. L'indomani a scuola dovevamo scrivere una "composizione" (perché "tema" non era termine che alle suore andasse a genio, evidentemente) con argomento a piacere. Erano gli anni in cui Canale 5 e Italia 1 erano il nostro Netflix, Rete 4 lo guardavano solo i nonni, i telefilm con i protagonisti sorridenti durante i titoli di testa erano le nostre serie tv, e di stagioni si parlava solo se volevi fare un commento banale sul tempo. E insomma, ero rimasto talmente impressionato da quel film che decisi di scriverne la trama in questa famosa "composizione", sentendomi in dovere di spiegare alla maestra come fosse stato possibile che Arnie fosse riuscito a saltare da quel cacchio di aereo appena decollato, atterrando senza un graffio in mezzo a una palude. Ovviamente non andai oltre quella scena, e mi ricordo che corredai pure il tutto con un disegnino stilizzato di 'sto tizio che salta dal carrello dell'aereo mulinando braccia e gambe.

Qualche giorno dopo, con simile dovizia di particolari, avrei messo in guardia la maestra su tre regole fondamentali da rispettare scrupolosamente, metti caso si fosse ritrovata tra le mani un frugoletto peloso bianco e marrone, con gli occhioni dolci e le orecchie grandi:
- Non doveva bagnarlo
- Non doveva esporlo alla luce del sole
(ma soprattutto)
- Non doveva dargli da mangiare dopo la mezzanotte, guai a lei!

Ecco quale fu il mio approccio alla scrittura, o meglio alla narrazione: una specie di sceneggiatura al contrario. Però funzionò, cavolo se funzionò. Mi rapì completamente l'idea di mettere per iscritto quello che avevo visto, perché in fondo non ero preso da altro che condividere un'emozione. Avevo, cioè, qualcosa da raccontare, e non mi importava che non fosse farina del mio sacco.

Quello avvenne non molto tempo dopo. Un pomeriggio, una vicina di casa che doveva farmi da babysitter mi propose di pensare a una storia nuova, qualcosa che nascesse dalla mia fantasia. Non me lo feci dire due volte. Avevo in testa avventure di ragazzini in sella alle loro BMX, tra film e libri che avevo appena iniziato a leggere, e naturalmente furono quelli a diventare i protagonisti della mia prima storia: una notte buia e tempestosa in una casa stregata abitata da una specie di vampiro con le fattezze di Super Sloth (questa non voglio stare a spiegarvela, cercatevela).

Penso di non essere mai arrivato in fondo a quella storia, ma fui rapito dall'esperienza.

Poi arrivò il numero 1 di Dylan Dog, che lessi di nascosto dai miei, a casa di un amico, e fu amore a prima vista con quel certo tipo di atmosfere. E un paio di giorni dopo, sempre a scuola, mi sentii in dovere di condividere le immagini di gente sbudellata nei modi più impensati, semplicemente riproducendo i disegni che avevo in testa. Andavo per emulazione, insomma, e ci mancò poco che quella bravata, tra l'altro in un istituto religioso, non mi facesse finire tra le mani di un'assistente sociale.

Sarebbe successo comunque trent'anni dopo, sposandone una.
Ma questa, come si dice, è un'altra storia...

Alla prossima!

giovedì 11 aprile 2019

Scaldiamo un po' i motori!

Sono un lettore diligente, ultimamente anche parecchio affamato, ma non ho mai avuto pretese di scrivere recensioni. Se però si tratta di parlare di un libro che ti ruba la vita sociale, prende casa nel tuo salotto e ti svuota il frigo, reclamando le tue attenzioni come un cugino particolarmente affettuoso arrivato da oltreoceano e di cui ignoravi perfino l’esistenza, se, dicevo, si tratta di tutto questo, condividere quello che ti ha lasciato dentro diventa una missione. Così si finisce per l’essere di parte, il che annulla la nostra capacità di giudizio, ma, appunto, in fondo chi se ne importa. Pensate a quando siete ospiti a un pranzo o a una cena a casa di qualcuno: se qualcosa non vi piace piuttosto tacete e vi concentrate sullo svuotare il piatto il prima possibile.

Ma se vi piace… lo fate capire eccome, no?

American Gods di Neil Gaiman è un piatto prelibato come non ne assaggiavo da tempo, anche se è più facile pensare a una droga, per l’assuefazione che mi ha creato. Alla base della storia, meravigliosamente narrata, c’è un interrogativo che trovo personalmente fulminante – e a ben guardare, di una certa attualità: quando un popolo migra verso un altrove, che ne è degli dèi della sua terra d’origine? E se questi dèi lo seguono, finiscono poi per essere dimenticati, fagocitati dalla globalizzazione, sostituiti dai moderni dèi del finto benessere, della tecnologia, delle macchine, del vincere facile, della televisione, di internet e dei blog come questo? American Gods è lo scontro tra questi nuovi dèi, che girano in limousine e ci parlano dalla tv, e gli dèi del Pantheon classico dimenticati da tutti, che si nascondono tra i sobborghi delle città, hanno la barba lunga e vestono impermeabili lisi e fuori moda, vanno a donne e bevono per dimenticare a loro volta… E il bello è che questi dèi provengono da svariate mitologie, a testimonianza dell’immane e - comunque lo si guardi - affascinante  melting pot che è la società americana. Ne è uscita da un paio d’anni una serie tv, per chi fosse interessato, tutto sommato ben fatta, ma decisamente non all’altezza.

Vi lascio con la copertina del romanzo, in fondo a questo post. Occhio, perché, pur essendo narrativa di genere – sembra che questo rappresenti per molti un punto a sfavore, vai a capire perché – è un libro tutt’altro che facile, in alcuni passaggi esageratamente e spietatamente crudo. Come lo stesso Gaiman dice nei ringraziamenti finali, c’è l’età per cui un libro ti cambia la vita, e poi, aggiungo io, c’è tutto il resto.

E in testa a tutto il resto, anche a quarant’anni, si può trovare ancora qualcosa di fantastico.



Copertina dell’edizione Oscar Mondadori, 2016 – Tutti i diritti riservati

giovedì 4 aprile 2019

Un nuovo inizio

Mettiamola così: a prescindere che lo si faccia bene o male, scrivere è un dono.
È un dono perché è il modo che abbiamo per buttare fuori tutto, ma con una rete di protezione bella solida laggiù da qualche parte, all’altezza delle prime file, quando gli spettatori non sono ancora arrivati e noi stiamo ultimando le prove generali. Se si sbaglia si torna indietro e si riprova finché non siamo certi di aver detto tutto quello che abbiamo da dire. Quando ci sentiamo sicuri apriamo le porte, strappiamo i biglietti di quanti si sono nel frattempo assiepati davanti all’ingresso - uomini, donne, famiglie, dipende dallo spettacolo - e via, si parte.

Ancora: scrivere è come tenere un telecomando in mano e premere rewind se abbiamo cannato l’abbinamento della camicia con la giacca. Se vogliamo rivedere una decisione presa senza preoccuparci delle conseguenze, in altre parole.

Certo, ci sono quelli che scrivono come parlano; che non vuole essere un giudizio su come scrivono, ma sulla fretta che hanno nel farlo. Cioè, senza prima rileggersi. Ma il punto non è condannare i leoni da tastiera, è un peccato che abbiamo commesso tutti almeno una volta da quando esistono le chat, o roba simile; no, il punto è che se chi scrive del tempo ci raccontasse quello che vede, senza limitarsi a “bello” o “brutto”, capirebbe che chiunque è in grado di scrivere una storia. Ecco dove sta il dono. Scrivere è la consapevolezza che c’è sempre qualcosa che si vuole raccontare davvero.

Ecco un altro concetto a cui aggrapparsi: le metafore si sprecano, nessuno può impedirci di farlo. E la differenza tra quello che vogliamo mostrare e ciò che mostriamo realmente è la stessa che ci distingue dagli animali: si tratta di ragionare e scegliere, non di agire d’istinto. Ecco quello che, a mio avviso, scrivere non può essere: agire d’istinto. Possono esserci mille ragioni per farlo, intendiamoci, ma non  è scrivere; è un’infinità di altre cose, tutte legittime, ma non è scrivere.

Quando ho scelto di aprire questo blog è stato per raccontare l’emozione provata davanti ad esperienze dell’infanzia che tornavano a riempire gli spazi con prepotenza. Qualcosa di vivido e improvviso come le zeta disseminate nella frase precedente. Poi è successo qualcos’altro, e questo qualcos’altro adesso ha 5 anni e all’asilo le stanno insegnando a mettere insieme e a leggere le prime sillabe.

Ho sempre amato scrivere, ma quando ho cominciato a farlo in questo blog ne ho sottovalutato le potenzialità reali. Riscriverei ogni virgola dei miei post di quasi sei anni fa, lo rifarei un milione di volte. Un blog in fondo non è solo un diario senza segreti, ma è soprattutto uno specchio senza macchie, che si tratti della più piccola cagatina di mosca o della chiazza informe del tempo che scorre sul vetro e lo consuma. E ho commesso l’errore più grande di lasciare ogni cosa in sospeso.

Questo post, questo nuovo inizio, è un tentativo di redimermi, chiedere scusa per aver lasciato che la polvere si posasse sulla pagina. Lo devo ai miei vent’anni, dopotutto, e a tutto quello che sognavo, all’epoca, e che poi incredibilmente è stato.

To be continued...