Su di me

La mia foto
Montemarciano, Ancona, Italy
Un umile inchino, un colpetto di tosse per schiarirmi la voce e via, cominciamo. Ecco quello che ho da dirvi.

domenica 19 gennaio 2020

Metti una sera a cena un dilemma morale

La sera dell’ultimo dell’anno, parlando di racconti, concorsi letterari e pubblicazioni – era un argomento tra i tanti, non ho tediato nessuno oltre il lecito, giuro – il mio amico Sergio mi ha fatto una domanda alla quale avrei giurato di avere la risposta già pronta, lì in mezzo ai denti; e invece così non è stato.

La domanda era questa: hai mai pensato all’autopubblicazione?

Eccome, se ci ho pensato. Ci ho pensato un’infinità di volte, per la verità, e tutte in termini molto poco ortodossi: provate a parlare di quello che scaricate giù nel cesso e la bocca vi si incurverà verso il basso come capita a me quando parlo di questa pratica.

Perché di questo si tratta, una pratica che ha preso piede con l’avvento dei social e di quello che io definisco il “chilometro zero dell’intelletto”, ossia la brutta abitudine di far fare a un pensiero pochissima strada nel cervello, prima di esprimerlo. Da quando ognuno si sente libero di dire a chiunque la prima cosa che gli passa per la testa, succede che il passo successivo sia il desiderio feroce di rivestire quel pensiero di una forma di legittimazione autoritaristica e assoluta. Non ci sono filtri tra chi scrive e chi legge, il che, detto così, sarebbe anche una buona intenzione; ma dai la democrazia, come si dice, in mano al primo deficiente e avrai il primo deficiente al potere.

Pensate se adesso io raccogliessi tutta questa fuffa che vi sto scrivendo e ci appiccicassi sopra il bollino con il prezzo, senza nessuno a impedirmelo. Ecco cos’è l’autopubblicazione. Nessuno che vi parli di me in terza o quarta di copertina, o sotto il titolo. Ci sono solo io che me la canto e me la suono tutto il tempo. Bello, eh?

L’autopubblicazione uccide la selezione. Non c’è niente di dittatoriale o di profondamente ingiusto nell’essere selezionati, è che a molta gente non piacciono le porte chiuse. Quelle stesse persone che non accettano un banale no, grazie ma non ci interessa; e, cosa ben più grave, non accettano nemmeno un no, grazie ma non ci interessa per questo, questo e quest’altro motivo. Si autoinfliggono un danno enorme senza rendersene conto, perché tanto chi se ne frega, con l’autopubblicazione posso scegliermi pure la copertina figa googlando per immagini, posso decidere io da che parte scrivere il titolo, posso fare un milione di cose per scegliere l’involucro di quello che ho da dire. Ebbene, per me è come scegliere la cassa da morto: c’è gente più interessata a quella che non all’abito con il quale finirci rinchiusi dentro.

Chi ci seleziona e ci rifiuta lo fa per il suo bene: non venderebbe; chi spende anche due parole per motivare il rifiuto, lo fa per il nostro: non venderebbe lui (o lei), non ci guadagneresti tu, e in più vuole spiegarti anche il perché di tutto questo – grazie a Dio, questi ultimi sono in netta maggioranza. La selezione è prima di tutto critica, e se la critica è costruttiva ci viene fatto un regalo, che noi scambiamo per mancanza di rispetto. La selezione filtra la qualità oggettiva, che merita, e non quella supposta e del tutto personale.

L’autopubblicazione al contrario appiattisce il livello di quello che troviamo in rete o su uno scaffale, perché senza selezioni e senza filtri finiscono tutti, quasi sempre, per scrivere degli stessi argomenti. Se la selezione serve soprattutto ad aiutarci a capire qual è la nostra strada, narrativamente parlando, l’autopubblicazione ci fa credere tutti giallisti o tutti degni esponenti del genere young adult, per citare la nuova moda.

Eppure anche l’autopubblicazione ha, come in tutte le cose di questo mondo, le sue eccezioni.
Sono gli scrittori che cercano la scorciatoia ma hanno la fortuna di essere bravi davvero. Come tutti gli scrittori bravi, esordienti e non, meritano tutti i meriti di questo mondo. Nulla da dire. Sono gli stessi che, a forza di ottenere i like, fanno fischiare le orecchie alle case editrici. La loro scorciatoia talvolta ha fini nobili: non vuole essere una scorciatoia tra lo scrittore e il mercato, ma tra lo scrittore e il lettore. Io non sono molto d’accordo, l’avrete capito: sapete qual è il modo migliore per avvicinare la gente alla lettura? Non è portargli qualcosa da leggere davanti alla porta di casa, no: sono le edizioni economiche a tre euro e novanta.

La lettura diventa cosa popolare quando i prezzi si abbassano. Il problema di avvicinarsi al lettore, quindi, non è di chi scrive, ma di chi vende in senso stretto. Il circuito va in corto quando sono entrambi la stessa persona, e allora ecco che saltano gli schemi.
Chi scrive dovrebbe preoccuparsi solo di una cosa, porca miseria. Scrivere. Raccontare. Condividere. Coinvolgere. Chiaro che se deve camparci ha anche la preoccupazione di vendere, ma quello arriva dopo, quando il prodotto c’è. Quando il prodotto è fatto e finito.
Chi scrive deve fare quello che serve per scrivere, ovvero aprire un computer oppure prendere carta e penna, e poi provarci con la prima casa editrice, poi con la seconda, la terza e via dicendo. E nel frattempo, se dice male, accumulare quante più motivazioni di rifiuto possibili; pretendere di riceverle, come prezzo del tempo speso a bussare a ogni porta.

Infine ci sono i casi ibridi di autopubblicazione, quando è la casa editrice a chiedere un – talvolta sostanzioso – contributo spese per la pubblicazione dell’opera. A me è capitato, ma ho rifiutato.
E’ difficile condannare chi sceglie di contribuire tirando fuori i soldi di tasca propria, in fondo metà del lavoro – cioè presentarsi a una casa editrice – l’ha fatto, quindi non vedo proprio tutto così nero. Però è comunque una scorciatoia, perché chi paga magari vale meno di chi non paga, e siamo alle solite.

In un post di qualche tempo fa riportavo una frase di Stephen King, che da quasi trent’anni se ne sta lì appesa sulla porta della mia vecchia cameretta, in cui il maestro sosteneva come i suoi romanzi fossero l’equivalente di cibo comune per gente comune, alla stregua di un fast-food. Ecco, quella frase, ripensata anni dopo, è né più né meno che un semplice e dannatissimo esercizio di falsa modestia, però ci dice una cosa importante, che si ricollega a quello che scrivevo poco più sopra sulle edizioni tascabili; e cioè, che alla platea dei lettori piace arrivare facilmente alla lettura di un libro, molto più legittimamente di quanto non piaccia a certi autori arrivare facilmente alla pubblicazione.

La platea dei lettori adora i tascabili che trova sugli espositori del giornalaio davanti alla spiaggia, e adora fenomeni come il book-sharing, che è una cosa bellissima (e faticosissima per chi deve vendere, va detto). Al fast-food trovi quasi sempre posto, e se non ce n’è puoi sempre mangiare in piedi o allungare il braccio dal finestrino della macchina.

Ma la platea dei lettori, che tutto giudica e tutto decide, non vuole per questo rimpinzarsi di cibo spazzatura recandosi al fast-food ogni santo giorno. La platea dei lettori sa benissimo chi merita di occupare il suo tempo, e sa quando scegliere tra un panino, un piatto di pasta fatta in casa o un risotto al caviale.

L’autopubblicazione rischia di portare sugli scaffali sempre gli stessi panini e le stesse patatine tagliate allo stesso modo e fritte in un olio vecchio. Pensate se tutti si cibassero di questo, dalla mattina alla sera.

L’autopubblicazione genererebbe mostri, probabilmente.